lunedì 25 agosto 2008


Andrea Chioin

Il ruolo dell’industria
dell’asset management
nella crisi dei mutui subprime
e del mercato finanziario


Wealth Management Industry

Area Tematica:
2006-2007
Anno accademico:
1
Indice
0. Introduzione……………………………………………………………………………………...3
1. Cosa sono i mutui sub.prime…………………………………………………………………4
1.1. Subprime………………………………………………………………………………..4
1.2. Definizione di Attivita’ di credito Subprime…………………………………………….5
1.2.1. I Prestatori SubPrime……………………………………………………………….5
1.2.2. I Debitori SubPrime…………………………………………………………………6
1.2.3. Il Credit Score………………………………………………………………………..6
1.3. Tipologie di Credito Subprime…………………………………………………………..7
1.3.1. Mutui Ipotecari Subprime…………………………………………………………..7
1.3.2. Carte di Credito Subprime…………………………………………………………8
2. Nascita e sviluppo dei Subprime……………………………………………………………10
2.1 1982 Alternative Mortgage Transaction Parity Act ……………………………………10
2.2 Il popolo dei Subprime…………………………………………………………………..…11
2.3 Il mercato Primario…………………………………………………………………………11
2.4 Il mercato Secondario……………………………………………………………………..12
2.5 Le Cifre della “bolla”………………………………………………………………………..13
3. I derivati dei Mutui Subprime………………………………………………………………..16
3.1 Le Cartolarizzazioni………………………………………………………………………..16
3.2 Abs (Asset Backed securisation)…………………………………………………………18
3.3 C.d.O. (collateralized debt obligation)……………………………………………………19
2
3.4 Mbs (Mortgage Backed Securities)……………………………………………………...21
3.5 Siv (Structured investiment Vehicle) :Cosa sono? rischi connessi per il sistema…..22
3.5.1 (esempio di Siv)……………………………………………………………………...22
3.6 Il peso del Sistema dei Derivati nell’economia Mondiale……………………………24
4 . I Protagonisti dell’Asset Managment Globalizzato…………………………………….27
4.1 Hedge fund………………………………………………………………………………….27
4.1.1 Hedge Fund a rischio “infezione” Subprime……………………………………29
4.2 Private Equity……………………………………………………………………………….32
4.3 Wealth Soveregn Founds………………………………………………………………….35
4.3.1 Rischi Politico-Strategici……………………………………………..……………38
4.3.2 Testimonianza Articoli Martin Wolf/ Jeffrey Garten(Financial Times)
sulFattore Decupling……………………...…..............................................................38
4.4 Il “nuovo”ruolo delle Banche Centrali…………………………………………………...40
4.5 Le società di Rating …………………………………………………………………….…42
Conclusioni…………...……………………………………….……………………………………44
Fonti…………………………………………………………………………………………………..45

Introduzione

La crisi dei mercati finanziari dello scorso agosto e quella più recente di gennaio
ha messo in luce una debolezza strutturale del sistema finanziario e, cosa forse
ancora più importante, ha anche evidenziato l'influenza dei mercati finanziari
nell'economia del mondo moderno. Il fenomeno delle turbolenze a cui abbiamo
assistito, ci appare come un dettaglio di un contesto più generale del processo di
"finanziarizzazione" dell'economia mondiale, intendendo con questo termine
l'inarrestabile crescita della massa netta di prodotti finanziari di varia natura che
hanno come sottostante pezzi dell'economia reale. La costruzione di questa "carta
moneta “, sta arrivando velocemente a prendere la consistenza di un ammontare di
valore di circa quattro volte il GDP mondiale (Prodotto Interno Lordo - PIL).
Secondo alcuni studi autorevoli ritroviamo la stima che la massa finanziaria ha
raggiunto il notevolissimo volume del 334% del GDP; questo è il risultato di una
impressionante crescita che va dagli anni '80 fine a fine millennio con un tasso tra il
5% ed il 6% all'anno, ed una crescita più contenuta nel periodo successivo. Si ha la
sensazione che questa produzione di carta abbia ripreso nuovo slancio, la crisi
innescata dalle insolvenze sui mutui sub-prime non appare un fenomeno
occasionale o fortuito, sembra piuttosto un frutto dell'odierno sistema finanziario per
come si è attualmente strutturato e che non ha ancora trovato i necessari e forti
antidoti alle rinnovabili epidemie di fiducia e di crisi.
Probabilmente gli organismi ed i sistemi di controllo e le normative sono ancora
insufficienti a creare le condizioni perché non si rinnovino tali crisi, anzi alcune volte
si ha la netta sensazione che le crisi possano essere state considerate anche un
utile mezzo per alcuni soggetti per trarne degli extrabenefici a danni di sprovveduti
investitori. La crisi di agosto e di gennaio hanno messo in evidenza che quando si
scatenano delle dinamiche così prorompenti e vaste anche i soggetti considerati
esperti possono rimanere con qualche cerino in mano.
Il mio è un tentativo di fare chiarezza su quello che sta diventando il Virus
dell’economia mondiale e che in termini mediatici tutti conosciamo come “crisi
Subprime”.
Il lavoro si divide in due parti, nella prima parte si cercano di chiarire le
origini di tale crisi e chi sono i protagonisti, nella seconda parte invece si
cerca di spiegare come tale crisi si è introdotta all’interno dell’asset
managment e che tipo di conseguenze essa, potrebbe avere.

Primo Capitolo : Cosa sono i Mutui Subprime

1.1 Subprime

I subprime, o "B-Paper", "near-prime" o "second chance" sono quei prestiti che vengono
concessi ad un soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha
avuto problemi pregressi nella sua storia di debitore. I prestiti subprime sono rischiosi sia per
i creditori che per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi di interesse, cattiva
storia creditizia e situazioni finanziarie poco chiare, associate a coloro che hanno accesso a
questo tipo di credito.
La tipologia subprime comprende un'ampia varietà di strumenti di credito, quali i mutui
subprime, i prestiti d'auto subprime, le carte di credito subprime.
Un'attività subprime si qualifica prevalentemente per lo stato della parte debitrice. Un
mutuo subprime è, per definizione, un mutuo concesso ad un soggetto che non poteva avere
accesso ad un tasso più favorevole nel mercato del credito. I debitori subprime hanno
tipicamente un basso punteggio di credito e storie creditizie fatte di inadempienze,
pignoramenti fallimenti e ritardi. Poiché i debitori subprime vengono considerati ad alto
rischio di insolvenza, i prestiti subprime hanno tipicamente condizioni meno favorevoli delle
altre tipologie di credito. Queste condizioni includono tassi di interesse, parcelle e premi più
elevati. Coloro che proponevano i mutui subprime negli Stati Uniti, hanno sottolineato il ruolo
che questa tipologia creditizia ha nell'estendere l'accesso al mercato del credito a
consumatori che non l'avrebbero altrimenti. Eppure gli oppositori hanno criticato l'industria
del credito subprime per aver messo in atto pratiche predatorie, come l'aver accettato clienti
che non avevano chiaramente le risorse per soddisfare i termini dei contratti. Queste critiche
sono aumentate esponenzialmente a partire dal 2006, in risposta alla crescente crisi
dell'industria statunitense dei mutui ipotecari subprime: centinaia di migliaia di debitori sono
stati costretti all'insolvenza e per molte compagnie prestatrici è stata presentata istanza di
bancarotta.

1.2 Definizione di attività di credito subprime

Non c'è un profilo di credito ufficiale che cataloga un mutuatario come subprime,
anche se negli Stati Uniti il termine viene usato convenzionalmente in riferimento a chi
contrae un prestito avendo un "punteggio di credito" inferiore a 620.(vedi cap. 1.3.3 )
1.2.1 I prestatori Subprime
Per avere accesso a questo mercato in crescita, i prestatori si assumono il rischio
associato all'attività di credito nei confronti di debitori scarsamente affidabili, con un
"punteggio di credito" basso o molto basso.
Si crede che i prestiti subprime costituiscano un rischio addirittura maggiore per il
prestatore, a causa delle suddette elevate caratteristiche di rischio della controparte.
I prestatori usano diversi metodi per coprire questi rischi: in molti prestiti subprime, il
rischio viene coperto con un tasso di interesse più alto; per quanto riguarda le carte di credito
subprime, ai possessori vengono addebitate tariffe di mora più elevate, in aggiunta a varie
tariffe annuali. Inoltre, a differenza delle carte di credito Prime, non viene dato generalmente
ai clienti un intervallo temporale di "tolleranza", in cui i pagamenti possono essere ancora
effettuati senza conseguenze, nonostante la scadenza del termine. Una volta addebitate sul
conto, le tariffe di mora possono anche spingere il credito oltre il limite previsto, e sfociare in
ulteriori penali. Tutto ciò determina introiti più elevati per i prestatori, in una sorta di circolo
vizioso.
Chi sono i Prestatori: Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae, o più semplicemente
FNMA cioè Federal National Mortgage Association che raggruppa le piu più importanti
agenzie federali americane istituite per facilitare l'accesso ai mutui immobiliari delle fasce
deboli di cittadinanza, agendo come interfaccia specializzata tra chi cerca un prestito e la
vasta offerta disponibile.

1.2.2 I debitori subprime

Il subprime dà a coloro che contraggono un prestito l'opportunità di avere accesso al
credito. Costoro usano questo credito concesso per acquistare abitazioni, oppure per
finanziare altre forme di spesa, come l'acquisto di un'automobile, la ristrutturazione della
casa, o persino rimborsare una carta di credito ad alti interessi. Ad ogni modo, a causa
dell'elevato profilo di rischio dei clienti subprime, il costo di questo accesso al credito è un
tasso di interesse più elevato.
Generalmente, coloro che contraggono un prestito subprime presentano una varietà di
caratteristiche peculiari di rischio, tra le quali:
• Due o più pagamenti di crediti pregressi effettuati oltre 30 giorni dopo la scadenza
negli ultimi 12 mesi, oppure uno o più pagamenti effettuati 60 giorni oltre la scadenza
negli ultimi 36 mesi;
• Dichiarazione di bancarotta negli ultimi 5 anni;
• Insolvenza su un mutuo negli ultimi 24 mesi;
• Alte probabilità relative di inadempienza come evidenziato, ad esempio, dagli score
degli istituti di credito inferiori a 660.
1.2.3 Il Credit Score “punteggio di Credito”
Il sistema creditizio americano utilizza le banche dati disponibili per verificare la
solidità finanziaria dei soggetti ai quali prestare denaro. Ci sono tre istituti nazionali
(Experian, Transunion, Equifax) che mettono a disposizione anche dei singoli le informazioni
sul "punteggio di credito", ma ogni assicurazione, finanziaria, compagnia telefonica o utility
ha i suoi sistemi per misurare l'affidabilità del potenziale cliente al quale erogare un servizio.
7
Il credit score individuale è costruito incrociando una serie di informazioni sui redditi,
le spese, l'indebitamento, l'utilizzo di carte di credito, eventuali ritardi nei pagamenti ecc. Il
punteggio varia tra 300 e 850 punti: più alto il punteggio, più facile è l'accesso al credito e
migliori sono le condizioni applicate. Lo stesso prestito perchi ha un punteggio di 620-640
costa circa due punti percentuali in più rispetto a chi si trova tra i 760 e gli 850 punti. Al di
sotto di 620 punti il soggetto èconsiderato decisamente "a rischio". Mentre i clienti di fascia
alta sono "prime", quelli con bassi punteggi sono "subprime".
Perdere posizioni nella graduatoria è facile: due o più pagamenti in ritardo di oltre un
mese nell'anno precedente la richiesta di prestito, un prestito non rimborsato negli ultimi due
anni, o una bancarotta negli ultimi cinque anni. Con un basso punteggio si ha difficoltà a
trovare denaro in prestito e, ammesso chelo si trovi, si pagano interessi assai più alti.
1.3 Tipologie di credito subprime
1.3.1 Mutui ipotecari subprime
Come per il credito subprime, anche i mutui ipotecari subprime vengono così definiti
in base alla tipologia di consumatore alla quale vengono accordati. Stando alla guideline del
Dipartimento del Tesoro Americano, "i debitori subprime hanno tipicamente una storia
creditizia che include delinquenze, o addirittura problemi più gravi, come avvisi di garanzia,
pignoramenti, e bancarotta. Tipicamente hanno anche una bassa capacità di rimborso, così
come essa viene misurata dai punteggi di credito e dal rapporto debiti/reddito, o da altri
criteri che riescono a supplire un profilo di credito incompleto".
Generalmente, i mutuatari subprime hanno bassi redditi od un punteggio di credito al di sotto
di 620. I mutui subprime hanno un più alto tasso di insolvenza dei mutui prime e il loro
prezzo dipende dal rischio che il mutuante si assume.
Nonostante la maggior parte dei mutui per la casa non rientri in questa categoria, i mutui
subprime hanno proliferato a partire dai primi anni del 21esimo secolo. John Lonski,

economista di Moody's, afferma che all'incirca il 21% dei mutui contratti dal 2004 al 2006 si
sono classificati come subprime, mentre dal 1996 al 2004 la percentuale si assestava al 9%.
Negli Stati Uniti i mutui subprime raccoglievano un importo totale di 600 miliardi di dollari nel
2006, capitalizzando circa un quinto sul totale del mercato statunitense dei mutui per la casa.
Ci sono molti tipi differenti di mutui subprime, tra i quali:
• mutui "interest-only", che permettono a chi contrae il prestito di pagare unicamente
la quota interessi per un determinato periodo di tempo (tipicamente 5-10 anni);
• mutui "pick-payment", che consentono ai mutuatari di scegliere la tipologia di
pagamento mensile (pagamento pieno, solo quota interessi, oppure pagamento
minimo che può essere più basso del pagamento richiesto per ridurre
l'indebitamento)
• mutui a tasso fisso iniziale che si convertono nel tempo in mutui a tasso variabile
("mutui a tasso aggiustabile").
Quest'ultima classe raggruppa una tipologia di mutui la cui popolarità tra i prestatori
subprime è cresciuta esponenzialmente a partire dagli anni 90. All'interno di essa vengono
inclusi i mutui "2-28", che offrono un tasso di interesse iniziale basso che resta fisso per due
anni, dopo di che il piano di ammortamento viene ricompilato con un tasso di interesse più
elevato per la vita residua del mutuo, in questo caso 28 anni. Quest'ultimo tasso è
tipicamente agganciato ad un indice (ad esempio, 5% sopra il LIBOR a scadenza annuale).
Oltre al metodo "2-28", sono altresì popolari le varianti "3-27" e "5-25".
1.3.2 Carte di credito subprime
A partire dagli anni 90, le compagnie di carte di credito hanno iniziato ad offrire le
carte di credito subprime a quei debitori con un basso punteggio di credito ed un passato di
insolvenze, pignoramenti o bancarotta. Spesso queste carte iniziano con bassi limiti di
credito, accompagnati da tariffe estremamente alte e tassi di interesse che posso essere
anche superiori al 30%.

Recentemente, a partire dal 2007, sono emerse nel mercato nuove carte di credito
subprime. Il mercato stesso è diventato più concorrenziale e gli istituti di credito sono stati
costretti a rendere le loro offerte più appetibili per i consumatori. Ora, difatti, gli interessi per
le carte di credito subprime partono dal 9,9%, anche se in molti casi compiono escursioni
oltre il 24%.
Resta il fatto che le carte di credito subprime possono anche aiutare a migliorare
bassi punteggi di credito, nel caso in cui le pendenze vengano saldate regolarmente. I report
positivi vengono compilati di solito entro 90 giorni dalle agenzie di credito.

Secondo Capitolo: Nascita e Sviluppo dei Subprime

2.1 1982 Alternative Mortgage Transaction Parity Act

La bolla finanziaria dei mutui subprime è nata per mezzo della deregolamentazione e
distruzione del sistema ipotecario tradizionale e la nascita successiva di “innovazioni” in
campo finanziario degli ultimi anni.
Tutto ha inizio nel 1982 quando con la legge Garn- St.Germain viene abolita la
disposizione anti-usura che stabiliva il tetto del 10% agli interessi che una banca poteva
richiedere ai propri clienti. Prima conseguenza di questo fu un’impennata del Prime Rate
negli anni successivi e un’analoga trasformazione delle condizioni dei mutui. Fino all’82 per
acquistare un’abitazione era necessario stipulare un mutuo standard a 30 anni con un tasso
fisso, ed un’anticipo di circa il 20% del valore dell’immobile, da questa data invece dopo che
il congresso approvò l’Alternative Mortgage Transaction Parity Act che autorizzava casse di
risparmio e istituti analoghi ad emettere prestiti a tasso variabile, anche nel mercato
ipotecario.Poi gli ambienti legati alla banca d'affari Lazard Freres rilevarono la Fannie Mae, il
più grande istituto di credito ipotecario, e l'attrezzarono per l'acquisto di titoli da tali istituti di
credito. Con il ricavato di tali vendite questi istituti emettevano nuovi prestiti ipotecari. I cerchi
concentrici continuarono ad allargarsi per assumere le dimensioni di una bolla speculativa
immobiliare intorno al 1995. La Fannie cominciò ad immettere sul mercato i nuovi Mortgage-
Backed Securities (MBS), prendendo i titoli ipotecari emessi da istituti di credito diversi,
impacchettandoli ed emettendo su di essi gli MBS da piazzare agli investitori ad un certo
tasso d'interesse. Il volume degli MBS rimase contenuto negli anni Ottanta, ma cominciò a
lievitare negli anni Novanta ed ha finito per raggiungere oggi la bellezza di 6,3 mila miliardi di
dollari.

2.2 Il Popolo dei Subprime

I destinatari dei subprime hanno rappresentato la preda ambita e ricercata sul
mercato con insistenti e aggressive campagne pubblicitarie: Si tratta di soggetti caratterizzati
da una storia dal punto di vista creditizio non proprio perfetta, oppure persone che sbagliano
a riempire un questionario su internet e diventano subprime anche se il loro scoring reale
non lo è, altri invece che li utilizzano per l’acquisto della seconda casa. La maggior parte
comunque risulta rappresentata da chi ha visto questi strumenti come l’unica possibilità di
comprarsi una casa di proprietà, o per rifinanziarsi un mutuo già in precedenza acceso. Si
tratta della parte più povera e meno istruita della popolazione, e quindi più esposta al rischio
di pignoramenti. Recenti studi mettono in evidenza come i mutui a più alto tasso di interesse
investano le fasce a più basso reddito e come in questo insieme assumano grande rilevanza
le minoranze etniche. E si calcola in 2,2 milioni le persone che negli Stati Uniti a causa dei
subprime corrono il pericolo di perdere la propria abitazione. (1)
Le autorità di vigilanza stanno cercando di correre ai ripari richiedendo agli intermediari il
rispetto di più rigorosi criteri di correttezza e trasparenza (ad esempio presentando ai clienti
una semplice tabella dove a destra c’è scritto quanto si paga con le rata fissa e a sinistra
quanto si corre il rischio di pagare con il sistema dell’Arm) e più attente analisi del rischio di
solvibilità della clientela.

2.3 Il mercato primario

I dati più recenti sul settore dei mutui negli States sono contenuti in una
testimonianza presentata il 12 marzo alla Camera dei rappresentanti di Washington da John
M. Robbins, presidente della Mortgage Bankers Association. Secondo la Amb, gli americani
che possiedono la propria casa nel 2006 erano in media il 68,9%, ma il valore scendeva al
48,2% per gli afroamericani (era al 49,1% nel 2004) e al 49,5% per i cittadini di origini
ispaniche. Il 34% dei proprietari di casa è libero dalle rate dei mutui: gli altri due terzi, 50
milioni, sono alle prese con un contratto ipotecario. i tre quarti hanno mutui a tasso fisso e
solo il 25%, un sesto di tutti i proprietari, ha contratti a tasso variabile.
Nel 2005, l'ultimo anno per cui sono disponibili tutti i dati, sono stati firmati circa 15 milioni di
nuovi contratti per un controvalore complessivo finanziato di 2.800 miliardi di dollari. Alla fine
del 2006, invece, lo stock di mutui erogati dal sistema finanziario valeva circa 10mila miliardi
di dollari, il doppio rispetto ai 5.100 miliardi del 2000 e quattro volte i 2.600 miliardi del 1990.
Il mercato dei mutui Usa è molto concentrato: nel 2005, i primi 15 operatori controllavano
quasi il 67% dei volumi dei broke, più dell'80% dei mutui venduti nel canale retail e quasi il
90% di quelli erogati dalle reti di promotori.

2.4 Il mercato secondario

Dietro alle concessioni di nuovi crediti, che rappresentano il mercato primario, esiste
un enorme mercato secondario che si basa sulle obbligazioni emesse dagli operatori per
finanziarsi, sulle cartolarizzazioni di mutui (Rmbs, se i contratti finanziano immobili
residenziali, o Cmbs, se riguardano immobili commerciali). A fine 2006 questo mercato
valeva 9.200 miliardi di dollari circa: un terzo è gestito direttamente o indirettamente dalle
Agenzie federali per la casa, grandi operatori pubblici gestiti dal Tesoro di Washington
(Fannie Mae, Freddie Mac, Ginnie Mae) che emettono titoli garantiti dallo Stato attraverso
varie agenzie come la Federal Housing Administration (FHA), la Rural Housing Service
(RHS) e il Dipartimento per i Veterani (VA). Ma la quota di mercato dei mutui erogati a
famiglie senza incagli di Fannie Mae e Freddie Mac sale al 70% del totale. Le agenzie
federali per la casa sono finanziate dalle cartolarizzazioni gestite dal Federal Home Loan
Bank System, che maneggia una massa di bond del valore di 934 miliardi di dollari.
Agli operatori privati che non utilizzano le garanzie federali fa capo invece più della metà
delle cartolarizzazioni di mutui emesse nel 2005 e 2006. i contratti di valore troppo elevato
per gli standard di Fannie Mae e Freddie Mac (i cosidetti mutui jumbo, finanziamenti
superiori a 417mila dollari), così come i mutui subprime, quelli con poche verifiche
documentali e gli altri contratti atipici fanno capo ai privati. Nel 2006, le emissioni di
cartolarizzazioni di operatori privati hanno raggiunto i 1.100 miliardi di dollari. Infine, i
contratti non cartolarizzati gestiti direttamente nei portafogli di banche, assicurazioni e fondi
pensione valgono all'incirca altri 3.400 miliardi.

2.5 Le cifre della bolla subprime

Secondo le stime che oltre un quarto della popolazione americana ricada in un
valutazione di affidabilità creditizia nella categoria subprime ed allineata alla medesima
proporzione uno su quattro sono i mutui ipotecari erogati per un ammontare complessivo nel
2007 di circa 1300 miliardi di dollari secondo il fondo monetario internazionale.
La combinazione di un mercato immobiliare in crescita e tassi bassi ha invogliato da
una parte a contrarre mutui subprime e dall'altra ad offrire prodotti accattivanti per l'iniziale
sottoscrizione e con una interessante remunerazione per le società erogatrici. La crescita
dei tassi e la strutturazione del mutuo che dopo avere solo considerato gli interessi
incomincia a ripagare anche il capitale, ha determinato una insostenibile lievitazione delle
rate da pagare, arrivando anche a più che raddoppiarle. Ad esempio un mutuo di 200.000
euro a tasso fisso del 5% per 30 anni porta una rata mensile di circa 1000 euro, se il tasso
aumenta al 7% la rata diventa di 1300 euro; ma i mutui sbprime possono avere tassi
facilmente vicini al 10% e dunque che arrivano a rate mensili intorno ai 1700 euro. Se
pensiamo poi che si è invogliato a sottoscrivere questi mutui con formule che prevedevano
inizialmente per i primi due anni (o tre o cinque anni) solo la quota interessi con un tasso
favorevole (ad esempio il 5% fisso), l'effetto combinato del passaggio dal pagare solo la
quota interessi alla quota comprendente anche il rimborso di capitale con un tasso tipico da
subprime (ad esempio il 10%) abbiamo come risultato che la rata passa da 850 a 1800 euro.
Vedete bene da queste semplici valutazioni che il nocciolo del problema era facilmente
prevedibile. Ma probabilmente il combinato interesse di continuare a perseguire l'obiettivo di
ottenere maggiori guadagni per gli intermediari e il maldestro tentativo di mollare il cerino
acceso a qualche altro inconsapevole investitore ha determinato una situazione ovviamente
insostenibile. Quasi a ritenere che la crisi finanziaria che si è manifestata sui mercati fosse in
realtà una benefica tempesta, alla stessa stregua delle formidabili piogge che hanno
debellato la peste di manzoniana memoria.
La crisi dei mutui subprime è decollata verso la fine del 2006 con una consistente
crescita del tasso di insolvenza e fallimento di numerose imprese del credito come la New
Century Financial Corporation, secondo operatore statunitense in crediti subprime.
La crisi che si è innescata negli USA e velocemente si è propagata al mondo intero,
guardando il grafico di seguito pubblicato possiamo notare un inarrestabile crescita del
debito americano nei confronti del resto del mondo, superando la cifra di 12.000 miliardi di
dollari. Le componenti Bonds e Mortgages superano tasso di crescita annuo del 10% negli
ultimi cinque anni e rispettivamente raggiungono il 11,1% ed il 12,2%. E' intuitivo dedurne
che se l'america prende un mal di pancia per un prodotto finanziario rancido il resto del
mondo può averne effetti peggiori non avendo gli stessi anticorpi in fatto di reattività,
efficienza e cultura finanziaria.
Dobbiamo anche riconoscere che la vasta dispersione dei prodotti di credito
strutturati ha in un certo senso protetto il sistema finanziario dai rischi di una maggiore
concentrazione del credito in pochi soggetti finanziari che sono stati in grado in questo modo
di trasferire ad altri il rischio. Un effetto correlato è stata l'indotta incertezza nella
localizzazione dei rischi ed un aumento del sentimento di rischio, intendendo con sentimento
un qualcosa di irrazionale e non quantificabile tra i vari soggetti bancari fra di loro. Chi aveva
calcolato di poter gestire completamente il ciclo di vita dei prodotti si è trovato in mano
qualcosa di piuttosto diverso e poco o non negoziabile.
Le leve finanziarie sono arrivate ad una stretta e dunque quella che era stata considerata e
calcolata come una eventuale passività, contabilizzata fuori bilancio per le banche
regolamentate si sono andate a configurare come una reale passività da contabilizzare in
bilancio, da prima in Europa e poi velocemente negli altri paesi in un effetto a catena.
Il rapporto Global Financial Stability Report (settembre 2007) redatto dagli esperti del Fondo
Monetario Internazionale (FMI) hanno stimato un ammontare di circa 200 miliardi di dollari le
perdite registrate da febbraio 2007 nel settore dei mutui subprime, ammontare soggetto ai
timori di incertezza e di illiquidità.
Lascia al quanto perplessi leggere qui di seguito nel report del FMI che questa perdita
stimata in 200 miliardi sia causata sostanzialmente dal mancato flusso di cassa di circa 170
miliardi di dollari a sua volta riferito alla massa di mutui subprime di 2300 miliardi di dollari.
Fonte: Global Financial Stability Report Fonte dei grafici: Standard & Poor's Factbook 2006

Terzo Capitolo: I derivati dei Mutui Subprime

3.1 Le cartolarizzazioni

La cartolarizzazione dei crediti è un’operazione finanziaria che trova la propria origine
nella cessione dei crediti ma che poi si completa attraverso la costituzione di titoli basati sui
crediti stessi idonei ad essere emessi sul mercato finanziario. Di conseguenza è una vera e
propria complessa operazione finanziaria che non si traduce in una semplice cessione dei
crediti. Nel quadro della continua ricerca di strumenti finanziari alternativi ed innovativi, in
grado di condurre le imprese operanti nel settore del credito ad una gestione sempre più
efficiente delle risorse, l’operazione di securitisation ha assunto un ruolo sempre più
importante. Si tratta di un’operazione strutturalmente molto semplice, eppure assai
complessa e di difficile realizzazione nella pratica. Le banche, per poter svolgere attività di
finanziamento a medio e lungo termine, hanno bisogno di poter contare su provviste di
denaro raccolte presso il pubblico che siano caratterizzate da una disponibilità prolungata
per un tempo più o meno corrispondente a quello degl’impieghi. Il che significa che i fondi
raccolti dovranno poter essere restituiti in tempi medio lunghi, al fine di non generare in capo
alla banca il rischio di dover far fronte alla restituzione di capitali quando questi siano investiti
in impieghi a lunga scadenza. Inoltre le Autorità di Vigilanza impongono la permanenza di un
dato rapporto tra ammontare complessivo degli impieghi e ammontare della raccolta, proprio
per garantire: il contenimento del rischio di insolvenze, una sana e prudente gestione e la
stabilità complessiva del mercato. A loro volta gli intermediari finanziari, quali le società di
leasing o di factoring, svolgono attività di finanziamento utilizzando disponibilità raccolte nelle
forme consentite dalla legge, con la precisazione però che ad essi non è permessa la
raccolta del risparmio tra il pubblico, riservata, a norma dell’art. 11 del Testo unico bancario,
alle sole banche (fatte salve le eccezioni previste al quarto comma della norma citata).
L’esigenza di reperire fonti di liquidità è ovviamente non sentita solo da banche ed
intermediari finanziari, ma anche dalle imprese che operano in altri settori, le quali hanno
costante necessità di avere la disponibilità di risorse finanziarie fresche per poter realizzare i
propri investimenti e sviluppare le proprie strategie aziendali.
vi sono due modelli di costruzione di Cartolarizzazioni:
1.dualistica: l'operazione è formata da due distinti contratti (cessione di credito del
creditore originario alla società di cartolarizzazione + contratto di finanziamento ossia un
mutuoerogato dalla soc. di cart. ai sottoscrittori dei titoli emessi dalla società di cart.) , uniti
da un collegamento legale.
2.monistica :tra i due momenti c'è un nesso talmente stretto da farla ritenere unica
cioè un contratto avente un unitaria causa quale la cartolarizzazione. Soggetti del contratto
sono il creditorre originario , cedente , e i sottoscrittori dei titoli . La soc. di cart. il tramite
attraverso il quale si attua la cessione di crediti dal cedente ai portatori dei ttoli. La
cartolarizzazione è una cessione pro solvendo cioè non vi è garanzia della solvenza del
debitore ceduto ,i rischi gravano sui portatori dei titoli.

3.2 L’ASSETS-BACKED SECURITISATION (ABS)

La tecnica dell’Asset Backed Securitisation (ABS) consiste nel trasformare determinate
tipologie di attivo, presenti nei bilanci d’imprese, principalmente finanziarie, in valori mobiliari
trattati sui mercati azionari. La radice anglosassone del termine securitisation è
rappresentata dal sostantivo security il quale assume comunemente il significato di “garanzia
in genere” ma, nella forma plurale (securities), è più spesso impiegato per indicare “titoli
mobiliari” che non siano necessariamente garantiti. L’etimologia risulta essere molto utile per
la comprensione dell’essenza dell’operazione di securitisation sia nell’accezione di garanzia
(infatti la massa di crediti, una volta smobilizzata, diviene un patrimonio separato che
rappresenta per gli investitori la garanzia della restituzione dell’investimento), sia
nell’accezione di titoli mobiliari che costituiscono il mezzo attraverso il quale si attua la
conversione dei crediti in strumenti finanziari da immettere sul mercato dei capitali per
raccogliere denaro fresco che servirà al pagamento dei crediti ceduti.
Il termine securitisation (o securitization in americano) viene tradotto con
“cartolarizzazione o titolarizzazione dei crediti” ed anche la legge 30 aprile 1999, n.130 porta
il titolo “Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti”. Secondo la definizione che si ricava
dall’ABI4 “la securitization è una tecnica finanziaria mediante la quale i flussi di cassa
derivanti da impieghi creditizi (mutui o altre classi di attivo predeterminate) vengono
selezionati ed aggregati al fine di costituire supporto finanziario e garanzia ai titoli (asset
backed securities) rappresentativi di tali crediti, collocati nel mercato dei
capitali” . Più semplicemente si tratta di un’operazione che mira allo smobilizzo di una serie
di crediti di cui sia titolare un’impresa (banca, intermediario finanziario o altra impresa,
definita originator) attraverso la loro cessione in blocco ad un soggetto cessionario (definito
special purpose vehicle), il quale provvede alla cartolarizzazione dei crediti acquistati, ossia
alla loro incorporazione in titoli offerti poi sul mercato dei risparmiatori. L’idea innovativa di
tutta l’operazione sta proprio nella particolare tecnica utilizzata per realizzare i fini di
autofinanziamento dell’impresa cedente: i crediti vengono, infatti, smobilizzati a favore di un
soggetto terzo che per raccogliere i capitali necessari al finanziamento dell’impresa, si
approvvigiona tramite l’emissione di titoli, collocati sul mercato ed offerti in sottoscrizione agli
investitori. Il rimborso dei titoli da parte del veicolo finanziario viene effettuato utilizzando i
flussi di cassa derivanti dal pagamento dei crediti smobilizzati dall’impresa cedente.
Prendono parte all’operazione l’impresa cedente (originator, secondo la terminologia
inglese), il soggetto emittente i titoli (chiamato comunemente Special Purpose Vehicle), il
servicer, l’investment bank, l’agenzia di rating (rating agency), una terza controparte garante
(credit enhancer). Il processo di titolarizzazione può essere scomposto in tre fasi. La
prima fase, coincide con l’individuazione di un pool di prestiti: l’originator (generalmente una
banca od una istituzione finanziaria) confeziona pacchetti costituiti da un numero
considerevole di prestiti aventi caratteristiche simili (in particolare simili scadenze e strutture
dei tassi d’interesse). Ad un secondo stadio, l’originator vende il pool di prestiti ad un’entità
esterna che viene generalmente indicata con il nome di special purpose vehicol (SPV), od
anche emittente. Al fine di corrispondere le somme dovute all’originator per la vendita degli
attivi, lo SPV emette titoli, asset-backed securities (ABSs), per poi venderli direttamente agli
investitori o ad una investment bank che poi provvederà a collocarli sul mercato. Questo è il
terzo ed ultimo stadio del processo. Poiché ai titoli viene assegnato un giudizio di rating da
una ratingagency, l’operazione è, di solito, corredata dalla prestazione di garanzie che
costituiscono una sorta di supporto creditizio (credit enhancement).

3.3 C.d.O. (collateralized debt obligation)

Una Collaterilized Debt Obligation (CDO) è un’obbligazione derivante
dall’aggregazione di diverse attività soggette a rischio di credito
Uno schema di base utile a illustrare il contenuto delle operazioni che vengono ad effettuarsi
per cartolarizzare si articola in quattro fasi:
1. Uno prima fase di individuazione del pacchetto dei prestiti che devono essere oggetto
dell’operazione.
2. La cessione dei crediti, o , in alcuni casi, il ricorso a forme contrattuali differenti, quali
sa subparticipation;
3. L’emissione dei valori mobiliari rappresentativi dei portafogli ceduti;
4. Il collocamento dei titoli.
La struttura organizzativa vede l’intervento di una pluralità di soggetti con funzioni
diverse, lo SPV (Special Pur pose Vehicle) è la società creata appositamente per realizzare
una o più operazioni di cartolarizzazione cui è demandato il duplice compito di acquisire
dall’originator, o impresa cedente, i crediti da cartolarizzare e di effettuare l’emissione degli
strumenti finanziari. La SPV ha l’obbligo di rispettare il principio di trasparenza patrimoniale
tra i portafogli titolarizzati per le singole operazioni di cartolarizzazione realizzate ed il proprio
patrimonio; Ciò limita il profilo della SPV e tutela i portatori dei tioli, escludendo l’aggredibilità
dei patrimoni relativi alle singole operazioni di cartolarizzazione da parte dei creditori dello
SPV e dei detentori dei titoli creati a seguito di altre operazioni effettuate dalla stessa
società.
La società veicolo può curare il collocamento dei titoli presso gli investitori finali, sebbene
questa fase dell’operazione possa essere realizzata anche da altri soggetti: da una
Investment Bank a cui viene affidata questa specifica funzione oppure da un intermediario
finanziario che svolge il ruolo di Arranger. Quest’ultimo collabora con l’originator nella
selezione del pacchetto di crediti da cartolarizzare, mantiene i rapporti con tutti i soggetti
partecipanti all’operazione, si occupa della costituzione dello SPV e spesso svolge la
funzione di lead manager nel collocamento dei titoli.
La gestione dei crediti oggetto di cartolarizzazione è assegnata, dietro mandato dello SPV
(cessionario), a un oggetto servicer, che cura la riscossione degli interessi ed un rimborso
del capitale, la gestione dei ritardati pagamenti e delle inadempienze, l’avvio di azioni legali
nei confronti di debitori insolventi. L’agenzia di Rating può intervenire nell’operazione al fine
di fornire agli investitori finali una forma di external credit assessment che ha il compito di
valutare le caratteristiche tecniche dei crediti ceduti e le garanzie eventualmente ad essi
connesse, le garanzie aggiuntive ed il profilo di rischio dei soggetti garanti.

3.4 Mbs (Mortgage Backed Securities)

Il caso della cartolarizzazione dei mutui è il più frequente (solitamente in questo caso
si parla di MBS: mortgage backed securities), ma vengono inseriti in ABS anche altre
forme di attivi. Ricordiamo tra questi: crediti per acquisto di automobili, ipoteche, crediti
bancari, crediti al consumo, leasing, flussi di pagamenti di carte di credito e crediti
commerciali. Esistono anche alcuni ABS particolari molto specializzati che incorporano
esclusivamente crediti in sofferenza.
Le ABS sono abbastanza “nuove” per il mercato italiano, mentre in Danimarca ed in
Germania erano già largamente diffuse fin dal diciannovesimo secolo.
Borsa Italiana ha imposto una serie di requisiti minimi che le ABS devono avere per
ammetterle a quotazione. Tra i principali ricordiamo:
1. Outstanding residuo: il valore nominale residuo delle ABS deve essere almeno pari a 50
mln di euro.
2. Un’adeguata diffusione presso il pubblico o presso gli investitori professionali atta a
garantire il regolare funzionamento del mercato.
3. Rating minimo: è richiesto il rango di investment grade, cioè un giudizio compreso tra la
"AAA" e la "BBB-" da parte delle principali agenzie di rating.
3.5 Siv (Structured investiment Vehicle) :Cosa sono, e rischi connessi per il
sistema.
Nascono nel 1988 quando due banchieri di Citigroup, lasciarono la casa madre e
fondarono il primo SIV, che si chiama Gordian Knot ed oggi ha un “valore” da 57 miliardi di
dollari. La SIV essenzialmente serve alla banca per portare fuori dal bilancio dei propri
impegni creditizi, riducendo quindi il fabbisogno di mezzi propri (patrimonio netto) richiesto
dalle regolamentazioni vigenti. Insomma è un trucco.

3.5.1 (esempio di SIV)

Facciamo un esempio: una banca fa prestiti (al consumo, alle aziende, etc.) per 100
milioni. Incassa gli interessi e ricche commissioni.Ma se il suo patrimonio è di 8 milioni, non
ne può fare più fino a che questi 100 non inziano a rientrare. Qui nasce l’idea, perchè se la
banca può trasferire una parte di questi 100 milioni ad un veicolo esterno, automaticamente
può fare altri prestiti, e quindi guadagnare di più. Se poi trasferisce quelli a peggior qualità, fa
come si dice “window dressing” e legalmente si libera anche del rischio.
Infatti una SIV è composta da tre diversi portatori di rischio: il primo è il capitale sociale,
quasi sempre intorno all’1% del totale; il secondo sono delle obbligazioni emesse dalla
medesima, che non superano mai il 7%; ed il restante 92% del rischio chi se lo accolla?
Legalmente, coloro che fanno finanziamenti alla SIV, principalmente sotto forma di
commercial paper, cioè cambiali brevi (con scadenza massima a 270 giorni) su cui la SIV
paga un interesse un po' superiore al mercato interbancario e che per questo sono
considerate “appetibili”, anche perchè a breve scadenza: ma ad ogni scadenza vengono
rinnovate, così di fatto gli investitori in commercial paper è come se fossero i veri azionisti
della società. Di fatto, per qualche decimo di punto in più negli interessi si accollano il rischio
di fallimento della SIV.
La SIV quindi opera con una leva di 12-15 volte i suoi mezzi propri, e sempre ottiene un
rating AAA sulla sua commercial paper, cosicchè gli investitori si sentono tranquilli. La SIV
guadagna la differenza tra il tasso d’interesse a breve che paga sulle sue commercial paper,
ed il tasso d’interesse a più lungo termine percepito sui prestiti che la banca gli ha girato(ad
esempio sui subprime). Lo spread, al netto di quello che si trattiene la banca originaria dei
prestiti, si aggira sul 4%, che quando si usa una leva di 10-15 volte, non è malaccio.
Soprattutto se non ci fossero rischi di sofferenze. Così tutti contenti, tutto legale e alla luce
del sole: le banche si sono gettate a capofitto su questo trucco, solo Citigroup ad esempio è
arrivata ad avere 100 miliardi in SIV.
Ma la SIV è della banca. Che succede quando i suoi attivi falliscono? è sufficiente un 8% di
insolvenze per mangiarsi capitale e obbligazioni, e il resto? La banca a quel punto ha due
possibilità: a) può far fallire la SIV e girare la fregatura agli investitori nelle commercial paper
perchè lei non li rimborsa, ma questo è ovviamente un passo estremo, anche perchè
difficilmente può illudersi di poi far sorgere altre SIV (per quanto il mondo sia pieno di”utili
idioti” dalla memoria corta), anche perchè - per quanto colluse - le agenzie di rating non gli
daranno più la tripla A.
Questo fa capire perchè il primo effetto della recente crisi è stato il blocco del mercato delle
commercial paper. b) può accollarsi le perdite della SIV, e quindi rimangiarsi gli utili
precedenti e soprattutto ridurre i propri margini di attività perchè scattano i requisiti
patrimoniali di cui sopra. La spazzatura torna a casa, si fa marcia indietro con tutti gli effetti
negativi sul bilancio che questo comporta.
Si può pensare che i manager che incassano stock-option milionarie si arrendano ? Non
volendo fare nè a) nè b), si cercano altre strade ed è così che è nata l’idea del M-LEC, che
altro non è che una nuova Super-SIV che resta fuori dai bilanci delle banche e si accolla gli
attivi delle SIV conferite (ammontano a circa 400miliardi, tutti formati dai prestiti a peggior
qualità), emettendo a sua volta commercial paper per finanziarsi.La novità è che in questa
proposta le 3 proponenti (citi,bofa,morgan) ci metterebbero dentro (in realtà non si sa
ancora) a quanto pare circa 80-100 miliardi coè un 25% di capitale invece del solito 1%
(max. 8% con le obbligazioni).Tutto questo “ammoino” (vecchia tecnica usata dai marinai
quando veniva l’ammiraglio in visita sulla nave, che si spostavano da prua a poppa per dare
la sensazione che l’attività a bordo fervesse), serve a guadagnare tempo, e ad evitare che le
SIV siano costrette a liquidare sul mercato la loro cartaccia con esisti disastrosi; nella
speranza che oltre ai subprime non diventino insolventi anche gli Alt-A, e altre categorie di
mutui considerate migliori (per l’affidabilità dei debitori). Ottenendo così che se questi “attivi”
non vengono trattati, non hanno un prezzo di mercato, e si può continuare a contabilizzarli a
100 come se non vi fossero perdite,in europa Ikb non è stata certo l’unica a farsi la SIV...

3.6 Il peso del Sistema dei Derivati nell’economia Mondiale

La massa dei prodotti finanziari ha un valore complessivo stimato nel 2004 di 136,000
miliardi di dollari (fonte Mc Kinsey - S&P). Interessante è anche osservare come sia la
composizione della massa finanziaria per categorie di titoli, e ricorrendo sempre alla fonte
del Factbook 2006 di Standard & Poor's osserviamo (vedi figura) che la componente equity
tende ad un ammontare del 30% con una crescita composta nel periodo 1993-2004 del
9,8%, mentre la componente di debito tende ad aumentare ben più vigorosamente con un
tasso composto che raggiunge il 10,3% nello stesso vigorosamente con un tasso composto
che raggiunge il 10,3% nello stesso periodo. Crescite ben inferiori hanno la componente dei
depositi bancari (8,0%) e la componente debito pubblico (7,5%) rispetto la massa
complessiva della carta finanziari che è cresciuta del 9% all'anno nel medesimo periodo
preso a riferimento. Si stima che seguendo il medesimo trend assumerà un valore
complessivo nel 2010 di ben 228,000 miliardi di dollari.
I dati per il 2006 indicano che il nuovo debito con rating ha raggiunto i 3400 miliardi di
dollari negli USA, i 2000 miliardi di dollari in Europa con un +30% rispetto l'anno precedente,
ed i 374 miliardi di dollari in Asia.
Il motore di questa espansione della "carta moneta finanziaria" può essere individuato
nel consistente processo di disintermediazione bancaria come soggetto che prende e
gestisce direttamente il rischio, inteso come rischio di controparte, di credito etc.. Una nuova
cultura bancaria si sta affermando e ritiene che sia probabilmente più profittevole operare
come semplice intermediario e/o costruttore sofisticato di prodotti finanziari negoziabili sui
mercati, piuttosto che fare il tradizionale lavoro del banca tradizionale e quindi raccogliere
risorse da correntisti e risparmiatori e prestare risorse gestendo direttamente ed
oculatamente il rischio e le insolvenze.
Il fenomeno è anche riscontrabile osservando il tasso composto di crescita della "carta" che
si trae dalle elaborazioni di Standard & Poor's è di ben l'11% nel periodo 1997-2005 (vedi
figura), rispetto la crescita, modesta comparativamente parlando, dei prestiti bancari che si
ferma per lo stesso periodo allo 7,6%. La stessa S&P usa il termine di "disintermediazione".
La parte del leone della espansione della carta finanziaria è svolta dalla finanza strutturata.
All'interno di questa categoria ci sono i prodotti finanziari che sono stati origine delle tensioni
finanziarie dello scorso agosto.
Appare dunque molto parziale vedere in questa crisi durante il sol leone agostano,
solo il problema dell'andamento immobiliare americano, il problema della solvibilità di
soggetti meno affidabili e conseguentemente dei mutui non onorati e così via.
Vediamo piuttosto un contesto di struttura dei mercati finanziari piuttosto fragile, se
messo sotto tensione. In questo contesto vediamo anche un fondamentale problema nel
ruolo delle agenzie di rating e delle valutazioni che hanno dato sui prodotti finanziari
complessi e sulle tecniche e sulle modellistiche che sono state adottate per stimare il rischio.
Punto importante è anche l'irrisolto problema del conflitto di interesse che pervade il mondo
della finanza sia dei soggetti finanziari emittenti che delle stesse agenzie di rating.
Epocale è infine la complessità dei prodotti che devono essere gestiti, non tanto per le
caratteristiche modellistiche o matematiche ma per le caratteristiche di stima del rischio
principalmente perché queste stime possono ritenersi affidabili se ci fossero sufficienti dati
storici avvalorati in diversi contesti e sotto diverse situazioni congiunturali; ma essendo
questi strumenti finanziari relativamente recenti non hanno, pensiamo, quella massa di dati
quantitativi storici e di esperienza pratica dei mercati e dell'economia sottostante che possa
adeguatamente avvalorare, sotto diverse condizioni economiche, le previsioni di rischio che
le attuali modellistiche vanno a stimare.
Quarto Capitolo: . I Protagonisti della Finanza Globale

4.1 Hedge Fund

Siamo nel 1949, quando Alfred Winslow Jones ha creato il primo hedge fund. Da allora,
gli hedge funds hanno operato suscitando poco interesse presso la comunità finanziaria.
Successivamente le crisi finanziarie che hanno interessato i Paesi asiatici nel 1997 e la
Russia nel 1998 hanno definitivamente portato alla ribalta questi fondi che hanno cominciato
ad essere considerati una vera e propria industria. Tuttavia, quest’industria è restata una
delle aree della finanza meno comprese e meno descritte in modo esauriente. Negli ultimi
anni, sono state spesso annunciate dalla stampa finanziaria le performance fuori da ogni
canone di normalità che pochi hedge funds di successo, come quelli di George Soros e
Michael Steinhardt, avevano esibito negli ultimi due decenni. Tuttavia, questi successi
contrastano con la drammatica debacle che ha interessato Long Term Capital Management
(LTCM), un hedge fund statunitense, nell’agosto del 1998. In realtà, quelli accennati non
sono che casi particolari che hanno reso famosa un’industria molto più complessa e
differenziata sia per le dimensioni dei singoli hedge funds sia per la loro attività
d’investimento.
Gli hedge funds o fondi speculativi hanno come peculiarità principale quella che gli
investitori abbiano un patrimonio di almeno un milione di dollari o entrate nette per oltre
200.000 dollari, e un numero di soci che non può essere superiore a 99. Essi sono
caratterizzati da alcune peculiarità tra le quali l’utilizzo di tecniche e strumenti di gestione
avanzati, spesso non adottabili dai fondi comuni (o direzionali) per motivi regolamentari, una
struttura commissionale, basata su una commissione di gestione annua ed una commissione
di performance (tipicamente rispettivamente pari a 2% e 20%), ed infine dall'investimento nel
fondo hedge di una quota rilevante di capitale da parte del gestore. I Fondi hedge hanno
l'obiettivo di produrre rendimenti costanti nel tempo, con una bassa correlazione rispetto ai
mercati di riferimento, attraverso però investimenti singolarmente ad alto rischio, ma con
possibilità di ritorni molto remunerativi, essi sono contraddistinti dal numero ristretto di soci
partecipanti e dall'elevato investimento minimo richiesto. Sono soggetti ad una normativa
che per quanto riguarda la prudenza, sono più limitate rispetto a quella che vincola gli altri
operatori finanziari.

Una tipica operazione effettuata dagli hedge funds è la vendita allo scoperto, a scopo
ribassista; tale operazione infatti non è permessa, di norma, ai fondi comuni canonici
(costituiscono eccezione i fondi che hanno recepito le nuove normative Ucits III), tra le altre
operazioni che caratterizzano gli hedge fund ricordiamo le più importanti:
• Equity Long/short
• Equity Market Neutral
• Global Macro
• Emerging Markets
• Equity and high yield corporate long/short
• Fixed Income Arbitrage
• Statistical Arbitrage
• Volatility Arbitrage
• Event Arbitrage
• Merger Arbitrage
• Managed Futures

4.1.1 Hedge Fund a rischio “Infezione” Subprime

Navigando su Internet ad un certo punto potreste inciampare nel sito on-line The
Hedge Fund Implode Meter, che tiene costantemente aggiornata la situazione degli hedge
fund: con una classifica di quelli falliti, di quelli più a rischio, delle prospettive future, una
barometro per aiutare gli investitori di ‘fondi a rischio’ nel pieno di una crisi che rischia di
peggiorare nei prossimi mesi, infatti Dopo la crisi dei mutui ‘subprime’, molti analisti sono
convinti che adesso toccherà agli ‘hedge fund’. «Cercare di valutare il comportamento di un
‘hedge fund’ é come "tentare di inchiodare un blancmange (un pudding alle mandorle dolci,
ndr) al muro», ha scritto recentemente l’Economist, perché quello dei "fondi a rischio" é un
"mondo darwiniano".
Al mondo ci sono circa diecimila hedge fund, i cui asset complessivi secondo l’Hedge
Fund Research (Hfr) – raggiungono la cifra complessiva di 1.870 miliardi di dollari. Quando i
mercati finanziari vennero scossi dall’ultima grande crisi (quella del 2001) di hedge fund ce
ne erano pochi, ed é per questo che oggi é difficile fare una previsione su come questi fondi
reagiranno in una situazione di agitazione dei mercati. Molti sono destinati al fallimento, altri
– concepiti proprio per ricavare benefici dalla crisi – potrebbero anche guadagnare un sacco
di soldi.
Il più famoso é stato il Quantum Fund, creato nel 1970 da George Soros e Jim
Rodgers. Nei successivi dieci anni il fondo ebbe un rendimento del 3.365 per cento (42,5 per
centro ogni anno per 10 anni), creando le basi della grande fortuna di Soros. Che divenne
famoso, ancora più del suo fondo, nel ‘venerdì nero’ del 16 settembre 1992, quando
vendette allo scoperto più di 10 miliardi di dollari in sterline, costringendo di fatto (almeno
così si dice) la Banca d'Inghilterra ad uscire dallo Sme e a svalutare la sterlina. Soros
guadagnò allora una cifra stimata in 1,1 miliardi di dollari e la fama di "uomo che ha sbancato
la Bank of England". Gli hedge fund necessitano di offrire ai propri sottoscrittori una
performance media molto elevata (in genere attorno al 20 per cento all'anno), cosa che
richiede a sua volta il ricorso ad operazioni ad alto rischio. Fattore molto importante è che
oggi si basano sugli gli hedge funds più che su altri strumenti d’investimento anche i grandi
fondi di private equity, (capitolo 4.2), che controllano i due terzi delle operazioni realizzate sui
listini azionari nordamericani. I tre Principali fondi di private equity del mercato (Texas Pacific
Group, Blackstone e Kkr) hanno insieme una capacità equivalente al 30 per cento del
mercato mondiale delle operazioni a breve termine. Ecco perché c’è il timore che se dopo la
crisi dei mutui ‘subprime’ toccherà adesso agli ‘hedge’ le conseguenze saranno difficilmente
immaginabili.
L’allarme lo ha lanciato a Davos George Soros. Non era il primo, ma le sue parole,
data la statura del personaggio, sono quelle che hanno avuto maggiore risonanza da parte
dei media. Poi é stata la volta di Alan Greenspan – che ha da poco assunto il ruolo di
‘advisor’ per il guru degli hedge fund John Paulson – e che in un’intervista al ‘Wall Street
Journal" ha detto molto chiaramente che siamo vicini alla recessione: «Le recessioni non
sono improvvise e sono generalmente anticipate e segnalate da una discontinuità nel
mercato e i dati delle ultime settimane possono essere letti in questo senso».
Nella sua analisi dal libro "I dodici scalini verso il disastro finanziario", Nouriel
Roubini presenta quello che definisce uno scenario da "incubo" o "catastrofico", scenario che
ha adesso diverse probabilità di diventare realtà e di cui anche la Fed e i leader finanziari
europei cominciano a prendere atto. Per Roubini la recessione del 2008 (il cui inizio viene
datato al dicembre 2007) sarà peggiore di quelle del biennio 19901991 e del 2001. E un
ruolo decisivo lo avrà quello che lui chiama il "shadow financial system", composto proprio
da istituzioni non bancarie come gli hedge funds. Gennaio é stato un mese nero per gli
hedge.
Quelli che si sono concentrati sul mercato azionario hanno perso una media del 4,1
per cento, la peggiore performance degli ultimi sette anni. ‘Goldman Sachs Investment
Partners’, che aveva raccolto sette miliardi di dollari – un record per un nuovo fondo – ha
perso il 6 per cento nel suo primo mese; L’ ‘Atticus Global Fund’ di Timothy Barakett, noto
per aver ‘scommesso’ su una dozzina di compagnie quotate a Wall Street ha perso il 12 e
mezzo per cento. «Naturalmente scommettere grandi cifre sul fatto che la Borsa vada in alto
o in basso é oggi un po’ come giocare alla roulette», sostiene un analista di Wall Street. E
del resto l’Hedge Fund Reserarch paragona quanto successo in gennaio alle perdite (allora
furono del 4,3 per cento) del novembre 2000, quando il collasso della New Economy travolse
il mercato finanziario. In ordine di tempo l’ultimo colpito, é stato un ‘hedge fund’ di Citigroup.
Il grande gruppo bancario-finanziario americano ha infatti congelato il fondo Cso Partners,
come conseguenza della difficile situazione in cui si trova avendo scommesso – scommessa
persa – sui prestiti alla clientela Corporate, cioè alle aziende. Congelamento che ha portato
alle dimissioni di John Pickett responsabile del fondo. Cosa é successo? Come ha spiegato il
‘Wall Street Journal’ gli investitori avevano provato ad ottenere il rimborso di 150 dei 500
milioni di dollari di asset di Cso Partners. Che é lo stesso fondo che lo scorso anno aveva
fatto registrare perdite tali da costringere Citigroup ad iniettare circa cento milioni di dollari di
liquidità. Come in difficoltà é anche un altro di Citigroup, Falcon Plus Strategies. Si tratta di
un ‘leverage fund’ operativo dal 30 settembre scorso che nei primi tre mesi di attività avrebbe
perso circa il 52 per cento dopo aver puntato sulla fine del ciclo di investimenti legato alla
performance delle obbligazioni. Una scommessa perdente.
Il futuro del mercato potrebbe dipendere dal vento che arriva da Asia e Medio
Oriente. A scongiurare, o perlomeno a frenare, la crisi degli ‘hedge’, potrebbero infatti
pensarci i ‘sovereign funds’(vedi capitolo 4.3) i fondi statali dei paesi del Golfo e asiatici, che
sono dotati di un patrimonio superiore ai duemila miliardi di dollari e che viene alimentato
continuamente dalla vendita di petrolio e gas. Nelle ultime settimane (stime Thomson
Financial) i ‘sovereign funds’ di paesi come Singapore, Emirati Arabi e Arabia Saudita, hanno
investito 74 miliardi di dollari in azioni di grandi imprese americane ed europee. Per fare un
esempio i ‘sovereign funds’ di Singapore e Kuwait hanno stanziato oltre dodici miliardi di
dollari per l’acquisto di quote proprio del Citigroup. Nel solo settore finanziario questi fondi
hanno investito già oltre 30 miliardi di dollari in titoli Bear Stearns, Citi, Morgan Stanley e
Ubs. Se il petrolio continuerà a viaggiare oltre gli ottanta dollari e dato che i due terzi delle
riserve mondiali di greggio sono localizzate nei paesi di quell’area, i grandi gruppi americani
ed europei dovranno continuare a fare i conti con loro.

4.2 Il Private Equity

Nella sua più conosciuta definizione, il private equità si occupa dell’acquisizione di
partecipazioni azionarie in imprese non quotate che abbiano un potenziale di svilutto tale da
consentire l’ottenimento di un plusvalore sulla successiva vendita della partecipazione, di
solito detenuta per un periodo di 3-7 anni. L’orientamento alla creazione di valore è favorito
dal fatto che le nuove risorse finanziarie apportate dall’investitore sono “pazienti”, ovvero
possono essere utilizzate per sostenere il miglioramento della capacità reddituale e
competitiva dell’impresa.
Nel corso del tempo, le trasformazioni che hanno interessato i mercati finanziari, e
l’attività degli investitori istituzionali, in particolare, hanno condotto a una revisione degli
schemi utilizzati per definire il private equità. Pur rimanendo invariati i principi guida , le
caratteristiche dell’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio si sono
diversificate per meglio rispondere ai mutamenti del mondo economico e all’evoluzionedei
mercati finanziari. Sebbene il comune denominatore rimane l’acquisizione di partecipazioni
significative in imprese, in ottica di medio e lungo periodo, e il loro sviluppo teso a creare il
plusvalore legato alla successiva vendita delle partecipazioni, le opzioni di intervento nel
capitale di rischio degli investitori istituzionali sono aumentate rispetto al passato
determinando, quale conseguenza, la revisione della loro classificazione.
Nel tradizionale approccio, le diverse tipologie di investimento nel capitale di rischio
venivano classificate sulla base delle diverse fasi di sviluppo dell’impresa, tra le quali si
distinguevano queste operazioni:
1. Seed (finanziamento dell’idea) e start up financing per individuare gli intervanti
cosiddetti di early stage, volti cioè a finanziare le primissime fasi di avvio dell’impresa:
2. expansion financing o development capital per indicare gli investimenti finalizzati a
supportare la crescita e e l’implementazione di programmi di sviluppo di aziende già
esistenti;
3. replacement capital ( capitale di sostituzione) per riferirsi ad interventi che, senza
andare ad incrementare il capitale sociale dell’impresa, si pongono l’obbiettivo di
sostituire parte dell’azionariato non più coinvolto nell’attività aziendale;
33
4. Buy out per comprendere tutte le operazioni orientate al cambiamento totale della
proprietà dell’impresa sia a favore di manager interni alla società stessa che di
manager esterni, con il frequente uso della leva finanziaria come strumento di
acquisizione. (leveraged buy out).
5. Turnaround per indicare gli investimenti di ristrutturazionedi imprese in crisi;
6. Bridge financing con riferimento agli interventi finalizzati, sin dal momento della loro
realizzazione, nell’accompagnare l’impresa in Borsa.
La trasformazione del contesto competitivo in cui l’impresa opera e le innovazioni
introdotte a livello tecnologico fanno si che lo stadio di sviluppo delle imprese e le esigenze
finanziarie ad esse collegate si riconcilino con difficoltà alla rigida schematizzazione
terminologica presentata dall’approccio classico. Pertanto, oggi la letteratura finanziaria
classifica gli interventi istituzionali nel capitale di rischio delle imprese non quotate in virtù
delle diverse esigenze che l’impresa intende soddisfare ricorrendo al private equità.
In tale ottica raggruppiamo gli interventi istituzionali nel capitale di rischio sulla base di tre
principali tipologie:
1. Finanziamento All’avvio: all’interno di questa categoria sono ricondotti tutti gli
intervanti il cui obiettivo è quello di supportare la nascita di una nuova iniziativa
imprenditoriale, sia essa ancora nella fase embrionale, che nelle primissime fasi
di avvio. Dal punto di vista dell’impresa, la richiesta di intervento è generalmente
riconducibile ad un imprenditore intenzionato a sviluppare la nuova invenzione o a
migliorare un processo produttivo esistente.
2. Finanziamento allo sviluppo: la seconda macro categoria di interventi effettuati
da investitori istituzionali nel capitale di rischio è riconducibile a tutte quelle
situazioni nelle quali, a diverso titolo e secondo diverse modalità, l’impresa si
trova di fronte a problematiche connesse al suo sviluppo. Questo può essere
generalmente perseguito attraverso, l’aumento o la diversificazione della capacità
produttiva oppure l’acquisizione di altre aziende o rami d’azienda. In altri casi
attraverso l’integrazione con altre realtà imprenditoriali.
3. Finanziamento al cambiamento/ripensamento: questa categoria di interventi in
capitale di rischio è finalizzata al finanziamento di processi di cambiamento interni
all’azienda, che spesso portano ad una modifica, più o meno profonda,
dell’assetto proprietario della stessa. Si tratta della categoria maggiormente
indipendente, rispetto alle altre, dallo stadio di sviluppo raggiunto dall’impresa,
che invece colloca la necessità di ricorso ad un investitore istituzionale
nell’esigenza di un suo ripensamento. Le motivazioni che si pongono alla base
del cambiamento possono risiedere tanto in una situazione di stallo
strategico/patrimoniale dell’impresa per il cui superamento è necessaria una
modifica del suo assetto, quanto nel verificarsi involontario di eventi negativi.
Sul Fronte prettamente terminologico, oggi, l’attività di investimento istituzionale nel
capitale di rischio è definita, attività di private equity, e viene suddivisa , in funzione della
tipologia di operatore che la pone in essere, tra venture capital e operazioni buy-out.

I Venture capital founds svolgono quelle attività che sono ricomprese nelle prime due
tipologie di intervento analizzate fino ad ora, mentre le operazioni di Buy-out possono essere
ricondotte alla terza categoria di interventi.

4.3 Wealth Soveregn Founds

Sovereign Wealth Funds (letteralmente traducibili in “Fondi di ricchezza nazionale”).
Da qualche tempo il termine compare abbastanza assiduamente sui media, per importanti
operazioni da essi compiute. Ma di cosa si tratta ? Anzitutto il Sovereign Fund è qualcosa di
ben diverso dal tradizionale fondo d’investimento che tutti conoscono, cioè un patrimonio
“privato” costituito da una banca o da un’altra istituzione finanziaria con il contributo di molti
sottoscrittori, allo scopo di effettuare investimenti “ad hoc” sui mercati, ripartendo poi il
risultato dell’impiego fra le varie quote parti sottoscritte.
Il Sovereign Fund è tutt’altra cosa: è un patrimonio di natura “pubblica” in quanto
posseduto da uno stato , alimentato non da sottoscrittori ma dagli esuberi di bilancio, dalle
riserve valutarie della banca centrale, da altri averi facenti capo ad enti pubblici, come quelli
che presiedono allo sfruttamento ed all’esportazione di materie prime, petrolio, ecc., oppure
talvolta dagli assets di fondi pensione pubblici. Il Sovereign Fund effettua investimenti come
una qualunque istituzione finanziaria internazionale, ma con un’ottica un po’ speciale.
Gli stati che hanno Sovereign Funds sono nazioni “ricche”, con surplus di bilancio,
riserve in oro o valuta abbondanti e con indebitamento a livello internazionale del tutto
assente o di dimensione irrisoria. Ecco quindi che fra i paesi cui fanno capo i Sovereign
Funds più conosciuti ed attivi troviamo gli Emirati Arabi Uniti (celeberrimo ed importante è il
Sovereign Fund di Abu Dhabi), Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Singapore, Brunei,
Repubblica Popolare Cinese, per non citarne che alcuni. Il loro volume è enorme, e viene
stimato in svariati trilioni (migliaia di miliardi) di USD. I loro averi sono detenuti principalmente
in dollari USA, anche se di recente si è attuata una maggiore diversificazione verso altre
valute, quali EUR e JPY. La natura dei loro investimenti si può considerare triplice, in quanto
può perseguire obiettivi finanziari, economici e politico-strategici. Ma prima di considerare
tale aspetto, e le problematiche che da esso derivano, vale la pena effettuare una
puntualizzazione, relativa all’inclusione nei Sovereign Funds delle riserve valutarie detenute
dalla banca centrale del paese. Si sa, ed è stato ricordato più volte anche in questi spazi,
come la funzione principale delle riserve detenute da una banca centrale sia quella di
stabilizzare il valore della moneta nazionale, intervenendo sul mercato per sostenerla, in
caso di eccessi di deprezzamento, o di apprezzamento, oppure di intervenire sul mercato dei
titoli domestici allo scopo di iniettare o drenare liquidità. In effetti quando il Sovereign Fund
utilizza tali riserve, si tratta per lo più del volume in eccedenza rispetto alla quantità
fisiologica ritenuta necessaria per lo svolgimento di tali funzioni tipiche, o per le altre
necessità di tesoreria. Queste strutture pubbliche tipiche dei paesi con surplus di bilancio ed
assenza di debiti, alimentate da fondi pubblici (riserve valutarie della banca centrale in
eccesso, averi di agenzie energetiche nazionali, ad esempio preposte all’export di petrolio od
altre materie prime, fondi pensione pubblici,…) operano sui mercati internazionali,
effettuando investimenti i cui obiettivi possono andare al di là della pura dimensione
finanziaria, cioè della ricerca di un ritorno adeguato a medio-lungo termine. Lo scopo
dell’intervento di un Sovereign Wealth Fund a livello internazionale può essere di natura
“promozionale”, teso ad esempio a far conoscere la situazione finanziaria del paese, ad
attrarre investimenti dall’estero verso quella piazza, stimolare joint-ventures.

4.3.1 Rischi Politico Strategici

Alltri motivi meno nobili possono essere però di natura politico-strategica, e questa è
proprio la fonte di molti dubbi, polemiche e critiche che di recente hanno avvolto l’attività dei
SWF. Alcuni casi sono balzati agli onori delle cronache, come le loro acquisizioni nell’assetto
proprietario di alcune banche USA dopo le perdite da queste subite per la crisi subprime, e
perfino in quello di una delle principali banche svizzere. Altri casi hanno riguardato i tentativi,
riusciti oppure no, di inserirsi nella proprietà di gruppi industriali, finanziari o di servizio di vari
paesi. Poiché partecipazione al capitale vuol dire anche potere decisionale, in molti paesi si
sono levate voci preoccupate contro tali acquisizioni, che minerebbero la strategia operativa
di entità ritenute, a torto od a ragione, di interesse nazionale, o nazionalistico. I critici
sostengono che questi SWF, con le loro dimensioni imponenti, possono destabilizzare certi
mercati finanziari (già peraltro destabilizzati da altre ragioni), che talvolta essi
tendono ad operare in modo “predatorio”, forti dei loro mezzi, e che certi settori strategici
nazionali sono ormai a rischio di “infiltrazioni strategiche” straniere. Ogni paese ha criteri
propri nel definire quali settori siano strategici: quelli “classici” sono da sempre energia,
trasporti, telecomunicazioni, difesa, certi comparti tecnologici, bancari…E così, c’è chi gioca
la cosiddetta “golden share”, cioè il diritto di veto dell’azionista di maggioranza, magari
pubblico, per proteggersi dall’”invasione” nemica dei SWF, o chi, come in una recente presa
di posizione francese, mette in campo un altro ente finanziario pubblico (resta da vedere
quanto altrettanto forte e liquido) per far da scudo contro gli assedianti SWF. Si vedrà come il
fenomeno, che sembra preoccupare in particolare Euroland e Svizzera, evolve, ma una cosa
è certa: le reti internazionali si allargano e, a livello economico e finanziario, la presenza dei
SWF è destinata ad assumere una rilevanza sempre maggiore in un mondo in cui, piaccia o
no, vista anche la scarsità di mezzi finanziari veri al di là di quelli virtuali, ricchezza e
disponibilità di risorse vogliono dire inevitabilmente più potere e peso strategico

4.3.2 Testimonianza Articoli Martin Wolf/ Jeffrey Garten sul Fattore Decupling

Capitalismo finanziario di stato - non quindi keynesismo o industrialismo pubblico - e
Cina sono sempre di più i temi su cui ruoterà la problematica della globalizzazione. Martin
Wolf, il principale giornalista economico del Financial Times, si è chiesto appunto se il
termine significasse ancora il trionfo dell'economia di mercato sul piano mondiale. In un
articolo del 17 ottobre egli notava che i maggiori attori della globalizzazione sono gli Stati
piuttosto che entità private. Ne abbiamo avuto già conferma negli ultimi dieci anni con il ruolo
crescente delle banche centrali nel generare liquidità, con il carry trade planetario sulle
monete e sui titoli pubblici e, infine, con il mantenere in piedi il rischio morale su cui si basa il
mercato finanziario.
Da meno di un anno l'attenzione sta concentrandosi sui fondi sovrani ed è andata
crescendo con l'evaporazione dei mercati privati delle cartacce senza valore. Questi fondi
appartengono a società di proprietà statale. La maggiore è norvegese, piena di soldi
accumulati con i proventi dell'export petrolifero. Idem per Arabia Saudita e staterelli arabi del
Golfo Persico. Grazie all'export energetico, anche la Russia sta per assumere un ruolo
importante nel campo dei fondi sovrani. Per l'Asia orientale si parla prevalentemente di
Singapore e Cina. Sebbene sia una città-stato, Singapore è un punto nodale del capitale
monopolistico in Asia e i suoi fondi sovrani sono tra i più facoltosi. Poco prima di Natale,
infatti, il fondo governativo Temesek ha acquistato un'importante partecipazione nella Merrill
Lynch, particolarmente toccata dal crollo dei subprime. Quest'evento ha sostenuto Wall
Street molto di più dell'azione congiunta delle banche centrali (iniettare ulteriori soldi
accettando in garanzia persino gli screditati titoli dei subprime).
Fino a che la crisi non è emersa alla luce del sole, i fondi sovrani erano sottoposti a
durissime critiche. La Norvegia fa parte dell'Occidente e della Nato, il suo fondo è stato
ufficialmente definito «trasparente», con investimenti di portafoglio tradizionali e prudenti.
Anche quelli di Singapore sono stati promossi quanto a trasparenza, sottilineando però come
nel piazzamento dei loro soldi essi cerchino delle posizioni strategiche. L'Arabia Saudita è
intoccabile, per cui alla fine erano quelli cinesi i fondi considerati «pericolosi» perchè opachi
e diretti con obiettivi politico-strategici.
Le critiche più severe le ha articolate Jeffrey Garten sul Financial Times del 7 agosto
scorso. Con l'aggravarsi dell'instabilità delle borse causata dai subprime, la musica sta
cambiando. Le finanziarie statali cominciano a essere considerate fattori di sicurezza e, più
prosaicamente, come sorgenti di soldi cui attingere. L'investimento da parte dei fondi sovrani
è valutato positivamente come un impegno di lungo periodo, in contrapposizione al
comportamento da bucanieri degli hedge funds. Le banche occidentali stanno facendo il
possibile per vendere le proprie azioni ai fondi statali cinesi e di Singapore per sostituire fonti
di denaro vero alle cartacce senza valore.
Contemporaneamente le stesse banche, assieme ad altre società finanziarie, hanno
grandemente aumentato gli spostamenti di capitale verso la Cina per approfittare della
gigantesca bolla speculativa che ormai accompagna, avvolgendola sempre di più, l'intera
crescita economica del paese. In questo contesto si è accesa la speranza che la Cina possa
permettere di aggirare una possibile recessione negli Usa. La parola chiave è «decoupling»,
cioè sganciamento. La dirigenza della General Electric ha presentato tale desiderio come
una certezza affermando che la crescita cinese continuerà anche nel caso di un forte
rallentamento negli Usa, mostrandosi pertanto ottimista sull'andamento mondiale delle
proprie vendite. Una visione disintegrata della globalizzazione quindi, l'opposto di quanto
affermato fino a ieri dai suoi maggiori fautori. Posizioni simili sono emerse nei maggiori
organi finanziari. Tali tesi sono, a mio avviso, delle pure chimere dettate dal fatto che la
paura fa novanta.
E' vero che la Cina cercherà di mantenere la sua espansione economica, altrimenti
scoppierebbe catastroficamente la propria bolla interna. Ma Pechino lo farà, anzi lo sta già
facendo, agganciando ulteriormente gli Usa da un lato e aumentando le esportazioni nette
verso l'Europa dall'altro. Basta guardare alla politica monetaria cinese. Non vi è alcuna
indicazione di «decoupling», bensì il contrario. Malgrado la notevole inflazione interna
Pechino non aumenta il tasso di interesse proprio per non sganciarsi dagli Usa, che hanno
ridotto i tassi (deprimendo così il valore del dollaro). Ne consegue che la Cina non può
controllare la dinamica della bolla interna. Il che dice tutto sull'improbabilità del «decoupling»
o sganciamento.

4.4 Il “Nuovo” Ruolo Delle Banche Centrali
Se guardiamo al ruolo delle banche centrali nel passato la loro funzione era, tra le
altre, quella di essere il prestatore di ultima istanza, altresì il guardiano del sistema. Questo è
uno dei motivi per cui non ci si aspetta mai che la banca centrale intervenga direttamente nei
mercati (finanziari). Un intervento diretto e tempestivo verrebbe visto come intervento di
ultima istanza. Un esempio è il primo intervento di iniezione di liquidità operato ad agosto
dalla FED, deciso il pomeriggio e annunciato il mattino dopo. Questo Ritardo nell’annunciare
una manovra decisa il giorno prima è servito ad evitare allarmismi dovuti al fatto in sé che la
banca centrale interveniva prontamente, come non si ricordava da molto tempo, per evitare
un problema al mercato finanziario. Negli utlimi mesi le banche centrali hanno fatto almeno 5
interventi di ultima istanza, tra immissioni di liquidità e revisioni dei tassi fino a quasi
annullare il gap tra il vecchio continente e il nuovo (dal 1,25% di agosto siamo arrivati allo
0,25% di dicembre). Questo significa che i mercati non si sono saputi regolamentare e che,
ancor più, non si sanno punire quando sbagliano.
La nuova realta che una banca centrale reagisca, con misure correttive, agli squilibri
dei mercati finanziari non è del tutto accettata dalla teoria economica per il semplice motivo
che potrebbe rappresentare un campanello d’allarme. Ogni qualvolta il campanello suona
dovrebbe significare che è ora di cambiare strategia.
Tutti gli operatori saprebbero che si può rimanere nel sistema senza rischi finché la
banca centrale non interviene. La banca centrale in questione sarebbe sempre il termometro
del mercato stesso. I suoi interventi rappresenterebbero il lower bound del sistema sotto il
quale non si scende mai.
Fino ad oggi le banche centrali sono riuscite nel loro intento di contenere la crescita
del livello dei prezzi. Sopratutto negli ultimi periodi, dalla metà degli anni novanta in poi, sia
negli USA che in Europa il mestiere del Central banking ha ottenuto i suoi successi dal punto
di vista della stabilità del livello dei prezzi. Da un po’ di tempo i mercati finanziari chiedono
un extra lavoro ai Central bankers che non può essere del tutto assolto senza una perdita
secca: la credibilità che questi si erano creati sul lato del controllo dell’inflazione. Credibilità
ottenuta sul campo senza fare sconti a nessuno. Credibilità che è andata sempre e solo a
favore del sistema economico e della sua stabilità di lungo periodo.
Se le banche centrali cominciano ad occuparsi anche della stabilità dei mercati
finanziari, solo per esplicita richiesta degli operatori (vedi lettera aperta di Erik F. Nielsen,
capo economista europeo della Goldman Sachs, alla BCE), allora ognuno potrà richiedere ai
banchieri centrali quello che meglio desidera. Se oltre a questo ci aggiungiamo il fatto che
non esiste una regolamentazione tale da poter rendere questo extra-lavoro agevole, ecco
che la situazione di questo ultimo periodo inizia a minare la reputazione che negli anni le
banche centrali si sono create con un duro lavoro, a volte anche contro l’idea predominante
nell’opinione pubblica.
In questo periodo sembra che si possa chiedere alle banche centrali tutto quello che
serve per rimediare ai propri sbagli, alle proprie leggerezze. Nessuno si chiede come mai
questi sbagli si siano generati. L’assenza di regolamentazione ha portato a dare poteri
illimitati a quella che viene definita finanza creativa.
Il mercato ha chiesto alle banche centrali di farsi carico di anni di sbagli. Di rimediare
a libertà prese e mai restituite ai risparmiatori. Nel tempo si sono offerti solo alti rendimenti
senza ricordare a nessuno l’associazione di questi rendimenti con un elevatissimo rischio.
Rischio che ora si chiede ai banchieri centrali, di mitigare o azzerare. Gli elevati rendimenti
della finanza creativa si sono divisi tra pochi mentre i molti risparmiatori si sono spartiti le
elevatissime perdite e i banchieri centrali ora si accollano l’onere di rimediare a tutto questo.

4.5 Il Ruolo delle Società di Rating
Il grosso problema della fiducia nelle analisi, negli studi, nelle valutazioni espresse
dalle grandi agenzie di rating internazionali, è un problema essenzialmente di natura
fiduciaria. Problematiche che vanno dal rischio di insider tradin alla cosidetta moral hazard al
conflitto di interesse puro. Le agenzie di rating sono spesso anche banche d'investimento
private che effettuano per conto proprio e per conto terzi operazioni sul mercato, su titoli di
cui stabiliscono anche la valutazione spesso in sede di offerta pubblica di acquisto (IPO)
L'omissione di comunicazioni al mercato d'informazioni in grado di abbassare un prezzo di
un titolo sono spesso la regola. Abbiamo visto come secondo la banca d'affari Credit Suisse
Group nel dicembre del 2000 sono stati acquistati circa 340 milioni di dollari di CDO, una
collezione di securities backed sostenute da bonds, ipoteche ed altri prestiti con un ritorno
sino al 10 %, ovvero sino al 25% in più dii un qualsiasi altro corporated bond.Tali CDO hanno
avuto da parte delle tre maggiori società di rating, ovvero Standard & Poor's, Moody's
Investors Service and Fitch Group Inc., la AAA o Aaa.Nessuna possibilità di sapere come
era composto il pacchetto in questione o quelli che erano i relativi rischi. Per la fine del 2006
le perdite ammontavano a circa 125 milioni di dollari ovvero più di un terzo. Le vendite totali
di CDO sono salite dal 2004 a 503 miliardi di dollari ovvero un aumento di cinque volte
secondo dati rilasciati da Morgan Stanley. In alcuni casi gli investitori non sanno neanche
che i valori dei propri CDO’s sono caduti, in un tale mercatonon è facile scoprire cosa vale
realmente un CDO. Ma nel Mondo finanziario chi possiede tali strumenti, conta sul rating per
avere un idea del valore di ciò in cui investono e i disclamer sono la regola e non certo
l’eccezione. Abbiamo detto che secondo le tre aziende di Rating sorvegliare il valore dei
CDO’s non è il loro compito, loro offrono solo dei pareri iniziali ma l’investitore non deve
basare alcuna decisione di investimento sulle loro analisi.
Ora torniamo al problema principale. Cosa servono i rating su strumenti di
investimento sulle loro analisi.Bene quindi torniamo al problema principale. A che servono
rating su strumenti altamente complessi ed alle volte difficilmente rintracciabili e
decifrabili.Che tipo di valutazione può essere data a strumenti che sembrano talvolta usciti
da un laboratorio di alchimia
Gli istituti finanziari che concedono prestiti, non sono stupidi. Le ipoteche Subprime
erano cartolarizzate! In linea di principio le cartolarizzazioni avrebbero dovuto ridurre il
rischio ma ora è chiaro che molti non stavano realizzando ciò a cui andavano incontro. I
CDO si suppone siano strumenti che trasferiscono la maggior parte dei rischi ad un piccolo
gruppo di investitori specializzati che vengono compensati con alti tassi di interesse.
Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch hanno sostenuto che gli strumenti sintetici generati dai
CDO fossero equivalenti al bond di alta qualità e gli investitori hanno puntato su questi
strumenti per i maggiori rendimenti a parità di valutazione. Adesso stiamo verificando un
mare di perdite con una gamma di 125/250 miliardi di potenziali perdite future. Le stesse
agenzie che hanno dato una valutazione di investment grade alla Tailandia sino a cinque
mesi dopo l’inizio della crisi asiatica.
Secondo il giornalista di Bloomberg Mark Pittman , le agenzie internazionali di rating
stanno marscherando le perdite nascoste nel settore delle obbligazioni garantite da mutui.
Secondo l'articolo infatti Standard & Poor's, Moody's e Fitch starebbero nascondendo al
mercato la possibilità di tagliare il merito di credito su circa 200 miliardi di dollari di CMOs,
titoli che hanno visto ridotto a più della metà il prezzi di alcuni bond garantiti dai mutui
"subprime". Secondo Bloomberg quasi il 65 % dei bond su indici che monitorizzano
l'andamento delle obbligazioni garantite "subprime" non soddisfano più alcun rating emesso
all'origine della loro immissione sul mercato. L'effetto valanga di una revisione porterebbe al
cosidetto effetto panico tra gli investitori istituzionali e privati che hanno sottoscritto i bond in
questione, collassando un mercato di circa 800 miliardi di dollari garantiti "subprime" e
minando seriamente un oceano di 1000 miliardi di dollari costituiti da CDOs, l'ultima moda
dei mercati globali. Alcuni analisti vedono la possibilità di un tornado per gli istituti finanziari,
compagnie assicurative e gestori di fondi pensione allegramente depositati in queste magie
finanziarie.

Conclusioni

Concludendo questo viaggio non vi è dubbio che ci troviamo di fronte ad un momento
importante dell’evoluzione dei mercati, la crisi dei sub-prime si è evidenziata una “rottura”
della gradualità del processo evolutivo, in quanto sono emersi cambiamenti strutturali, che
coinvolgono il ruolo degli intermediari finanziari, le modalità di trasmissione e concentrazione
del rischio e la qualità dell’informazione diretta o mediata sui prodotti finanziari.
Da tutta questa situazione derivano rischi, in gran parte nuovi o di intensità a cui non
siamo abituati; Oggi assumono nuova fisionomia e una maggiore complessità anche le
relazioni tra la stabilità del sistema finanziario e dei singoli intermediari, da un lato, e la
trasparenza informativa dei mercati e la correttezza comportamentale nella prestazione dei
servizi di intermediazione, dall’altro.
Non dobbiamo dare per scontato che tali cambiamenti comportino nuove regole e che
l’autodisciplina del mercato di oggi, sia insufficiente a fronteggiare i problemi connessi al
nuovo scenario.
Le forze del mercato hanno un grande potenziale, in termini di esperienza e di
conoscenza dei fenomeni, per individuare soluzioni adeguate ai problemi emersi nell’ultimo
periodo, in un quadro nel quale risulta più difficile regolamentare fenomeni sempre più
complessi.
Gli attori del mercato hanno una ridotta possibilità di autoregolamentazione, a causa
degli ostacoli che possono trovare tali iniziative, i cui costi, ai quali la classe manageriale è
sempre molto attento possono rilevarsi superiori ai benefici su base individuale, anche per il
rischio di diffusi comportamenti opportunistici.
Di fronte a tutta questa situazione, oggi sono, ancora più di prima, le autorità di
vigilanza chiamate a fare un salto di qualità nella capacità di analizzare e interpretare i nuovi
fenomeni, rafforzando la propria capacità di avere una visione il più possibile complessiva e
integrata del sistema.
Oggi, Secondo la mia opinione il mercato è chiamato a mettere rimedio
principalmente su due questioni che riguardano:
1.Le società di rating, che devono garantire trasparenza e favorire la concorrenza di mercat;
2. La trasparenza nella negoziazione dei prodotti derivati;
Sicuramente possiamo trarre insegnamento che comportamenti finalizzati a
massimizzare i rendimenti di breve termine “possono non pagare nel medio periodo”, a meno
che non risultino accompagnati dalla presenza e dall’interazione degli attori in campo.
Bisogna sempre ricordare che l’integrità del mercato rappresenta “un valore di tutti”
che va difeso. In un mondo così complesso, una valida difesa presuppone una buona
interazione fra i soggetti, che conoscono meglio il mercato, e le autorità di controllo, che
possiedono una visione completa e di sistema.

Fonti:

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Di come funzionino l’economia e i mercati finanziari molto ci sfugge. Qualcosa, però, si sa, come ad esempio che seguono dei cicli. A un’espansione fa seguito una recessione e dopo un bull market viene un bear market, un po’ come al giorno segue la notte. La regolarità, s’intende, non è la stessa. Economie e mercati sono espressioni della socialità umana, fenomeni storici segnati da un’intrinseca imprevedibilità. D’altra parte, non sono neppure totalmente impenetrabili, irrazionali e caotici. Ci sono delle costanti, magari instabili, magari non precisamente misurabili, che comunque ci possono aiutare a orientarci. E tra queste, la ciclicità è una delle più evidenti.
Negli ultimi 62 anni si sono alternate 11 fasi espansive e 10 recessioni. Nell’economia in rapida crescita che ha caratterizzato l’ultimo paio di secoli di storia umana, le espansioni durano molto più a lungo delle recessioni. E infatti, dal 1946 a oggi, negli Usa, le prime si sono protratte in media per 57 mesi, le seconde solo per 10. Sommando, si ottiene la durata media del ciclo economico americano, che è stata di 67 mesi, ossia poco più di 5 anni e mezzo.Si tratta, come accennavo, di un ciclo piuttosto irregolare. Le recessioni oscillano tra i 6 e i 16 mesi (la più breve fu quella del 1980, le più lunghe, alla pari, quelle del 1973-75 e del 1981-82). Mentre le espansioni hanno avuto una durata variabile tra i 2 anni (1958-1960) e i 10 anni (1991-2001).Per prevedere una recessione, dunque, non basta guardare il calendario!Un esperimento mentaleD’altra parte, avere un’idea del ciclo economico, pur con tutta la sua instabilità, e delle sue dimensioni medie ci può essere d’aiuto. Per capirlo, proviamo a fare un piccolo esperimento mentale.Immaginiamo di trovarci al settimo anno di un’espansione che ha fatto seguito a una delle recessioni più brevi della storia (8 mesi), la quale a sua volta è venuta dopo un’altra fase di crescita addirittura decennale, la più lunga della storia (per lo meno dal dopoguerra a oggi).Immaginiamo anche che questi 204 mesi (17 anni) di crescita inframmezzati da solo 8 mesi di una scialba contrazione (ricordiamolo, il rapporto medio tra espansioni e recessioni è di 57 a 10, non di 204 a 8) siano stati il frutto non tanto di rivoluzioni tecnologiche e “miracoli” di produttività senza precedenti, ma, in misura prevalente, di un’economia drogata dall’eccessiva disponibilità di credito (e conseguente accumulazione di debito). A questa lunga onda espansiva, va infatti aggiunto, si sono accompagnate la più grande bolla azionaria della storia, la più grande bolla immobiliare della storia, e infine la più grande bolla del credito della storia – tutti fenomeni che hanno fortemente squilibrato e indebolito l’economia oggetto del nostro esperimento mentale.Immaginiamo, infine, che i prezzi del petrolio aumentino del 600%, superando a spron battuto quei livelli che in passato hanno invariabilmente provocato delle crisi economiche. E che contestualmente, una dopo l’altra, scoppino tutte le bolle, provocando una corsa a vendere asset, ridurre i debiti, contrarre il credito.A questo punto, dopo 204 mesi di espansione, interrotti solo da una breve pausa di 8 mesi, gli indicatori di crescita volgono bruscamente al peggio, scendendo da tassi annui di crescita superiori al 4% fino in prossimità dello zero.Siamo alla fine dell’esperimento. Voi, a questo punto, su quale esito scommettereste? Recessione, sì o no?La conclusione, per ora, sono costretto a tirarla da solo. Io scommetterei decisamente sulla recessione, e mi viene da aggiungere che non vedo come una persona ragionevole potrebbe fare altrimenti. Nelle previsioni, ben inteso, la certezza non esiste. Ma in base al quadro che ho illustrato, le probabilità sembrano troppo sbilanciate a favore dell’esito negativo per non puntare lì le proprie fiches.Le previsioni della Federal ReserveBene, come penso chiunque avrà capito, quella che ho proposto di immaginare è in realtà la situazione in cui versa – da un po’ di tempo - l’economia americana.Il mondo dell’economia e della finanza pullula di persone ricche di talento. Qualcuno, immaginandolo, penserà: beh, certo non sarà sfuggito che l’economia Usa è già in recessione o sta per cadervi. I più esperti l’avranno capito e fatto capire da un pezzo.Vediamo se è davvero così, facendo ritorno a poco più di un anno fa e prendendo le mosse dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che è un concentrato di competenze e materie grigie orchestrato dal presidente Ben Bernanke, uno degli economisti più bravi al mondo.Nel maggio dell’anno scorso gran parte degli ingredienti che ho illustrato nel mio esperimento mentale si erano già in qualche misura manifestati. Il Pil, ad esempio, aveva registrato una fase di crescita particolarmente debole nel quarto trimestre del 2006. Il prezzo del petrolio non si era certo ancora moltiplicato di 7 volte da quei 20 dollari a barile che quotava alla fine dell’ultima recessione americana, nell’autunno del 2001, ma aveva sfiorato gli 80 dollari: pur sempre un’impennata del 300%. Il mercato della casa era già in brusca contrazione e la crisi dei mutui subprime era sotto gli occhi di tutti.Io, nel mio piccolo, avevo allertato i miei lettori degli evidenti pericoli di crisi economica (non solo in America), di un crollo degli utili e di un pericoloso bear market azionario in tre post in rapida successione, che forse vale la pena rileggere: “Utili record e utili normalizzati”, “Analisi strategica del ciclo” e “La prima bolla davvero globale”.In quello stesso maggio, a Chicago, Bernanke tenne un discorso interamente dedicato all’analisi dei problemi nel mercato dei mutui subprime.Le conclusioni, in sostanza, erano le seguenti:- non ci sono segni di spillover, ossia di ricadute negative, sulle banche. I gruppi creditizi coinvolti sono operatori marginali, “in gran parte” neppure coperti dall’agenzia federale che assicura i depositi.- i fondamentali economici dovrebbero sostenere la domanda di case. La crescita dei posti di lavoro e dei redditi dovrebbe garantire la sostenibilità dell’esposizione debitoria delle famiglie. Pertanto, la situazione critica nel settore dei mutui subprime avrà effetti “limitati” sul mercato immobiliare. La stragrande maggioranza dei mutui continuano a performare “bene.”Come oggi sappiamo, queste conclusioni non avrebbero potuto essere più fuorvianti e sbagliate.In quel periodo, la Federal Reserve faceva riferimento a un quadro di stime macroeconomiche (reso pubblico a febbraio) che prevedeva una crescita del Pil del 2,5%-3,0% nel 2007 e del 2,75%-3,0% nel 2008, un tasso di disoccupazione stabile al 4,5% e un’inflazione poco sopra il 2% nel 2007 ma in calo l’anno successivo.Seguire l’evoluzione di queste stime è istruttivo.A luglio, nel tradizionale rapporto semestrale consegnato al Congresso, la Fed si fece un po’ più cauta nella sua previsione di crescita per l’anno corrente (2,25%-2,5%) ma conservò l’assunto che le cose sarebbero andate meglio nel 2008, quando il Pil sarebbe cresciuto del 2,5%-2,75% e l’inflazione sarebbe tornata sotto controllo.In merito a quest’ultimo punto, la Fed notava in particolare come “alcuni dei fattori che hanno esercitato pressioni sui prezzi in anni recenti già hanno cominciato ad attenuarsi, o sembrano comunque in procinto di farlo. L’andamento dei prezzi dell’energia e delle altre materie prime, implicito nei contratti future, suggerisce che le pressioni sull’inflazione core da essi derivanti dovrebbero diminuire.”Di conseguenza, conclusero allora diversi analisti di spicco, tra cui ad esempio quelli di Goldman Sachs, era ragionevole attendersi che i tassi a breve (i Fed funds) restassero invariati al 5,25% per un bel po’.Giusto? No, patetico wishful thinking, verrebbe da commentare oggi, brandendo senza misericordia il nostro senno di poi. In realtà, la crescita stava per implodere, l’inflazione per esplodere e i tassi erano in procinto di essere tagliati, in rapida successione tra settembre e aprile, dal 5,25% al 2%.Da lì in poi – novità introdotta da Bernanke – le stime macroeconomiche della Fed vennero rese pubbliche a cadenza trimestrale, anziché semestrale. Continuiamo a seguirle.A novembre la banca centrale tagliò di nuovo la previsione di crescita per il 2008 all’1,8%-2,5%, citando il deterioramento dei mercati della casa e del credito come motivi di preoccupazione.In un’audizione di fronte al Congresso, i cui contenuti furono in genere descritti dai media come “deprimenti” (gloomy), Bernanke, pur non eludendo un’analisi dei rischi, si disse comunque convinto che la crescita, per quanto rallentata, sarebbe rimasta positiva a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008. Dopodichè, aggiunse, “pensiamo che a partire dalla primavera (2008, ndr), a mano a mano che i problemi creditizi si risolvono e, come speriamo, il mercato della casa comincia a toccare il fondo […] l’economia si riprenderà.”Sappiamo ora che nel corso dell’ultimo trimestre del 2007 la crescita del Pil americano fu negativa (-0,2%). A marzo di quest’anno, poi, la Fed era alle prese col salvataggio di Bear Stearns e dopo di allora i problemi non si sono affatto risolti, anzi. A luglio c’è stato il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac e giusto ieri JP Morgan ha annunciato nuove perdite citando un marcato peggioramento degli spread e delle condizioni del mercato del credito nell’ultimo mese (novità che non avrebbe dovuto sorprendere chi, ad esempio, ha seguito la recente impennata nelle quotazioni dei credit default swaps, strumenti derivati utilizzati per assicurarsi contro i rischi di insolvenza).E’ inoltre facile osservare che il mercato della casa non ha per ora dato alcun cenno di voler toccare il fondo (ne riparlerò più avanti) e che gli indicatori di crescita, dopo un effimero rimbalzo nel secondo trimestre dell’anno, dovuto ai 170 miliardi di dollari di incentivi fiscali approvati in fretta e furia dal Congresso e dalla Casa Bianca all’inizio dell’anno, sono tornati negli ultimi tempi a volgere al peggio (anche di questo parlerò più diffusamente nel seguito di questo post).A posteriori, gli annunci novembrini di Bernanke, per quanto etichettati allora come “deprimenti”, appaiono contrassegnati da un irrealistico ottimismo.A febbraio, col nuovo aggiornamento trimestrale delle previsioni macro, la Fed riduceva la stima del Pil per il 2008 all’1,3%-2,0%. E un ennesimo, più drastico taglio è stato annunciato a maggio, questa volta a una forchetta dello 0,3%-1,2%. Vedremo, tra pochi giorni, quali sorprese ci riserveranno le stime di agosto.Gestione dei rischi, statistiche e lampioni Un osservatore disincantato, a questo punto, potrebbe intravedere nella storia che ho ricostruito un filo rosso di continuità.Esclusa la sistematica imperizia, verrebbe naturale supporre una tecnica di gestione dei rischi (penso a rischi di feedback negativi e di reputazione) così strutturata: di fronte all'elevata probabilità di un accadimento sgradevole e potenzialmente traumatico e destabilizzante, negare finché è possibile farlo senza distruggere la propria credibilità, ammettere quello che non può più essere negato, ma prestando bene attenzione a condire ogni annuncio negativo con delle rassicurazioni positive di prevalente portata (ad esempio, “stiamo attraversando un trimestre, al massimo due, di congiuntura bassa, ma già si vede la svolta e l’anno prossimo le cose andranno progressivamente sempre meglio”).Forse, in questo approccio, ci sono diverse cose da salvare. Ma non dal punto di vista dell’investitore, il cui interesse non è quello di coltivare illusioni, ma di interpretare lucidamente la realtà.Nella seconda parte di questo post cercherò di illustrare altri esempi di “castelli in aria”, costruiti un po’ dovunque, in America come qui in Italia, da esponenti di diverse categorie (fonti di insidie costanti per un investitore) tra le quali alberga spesso l'interesse a negare, per quanto possibile, finché possibile, l’approssimarsi o l’instaurarsi di una recessione: analisti finanziari, esponenti di governo, giornalisti di media vicini alle istituzioni.Cercherò anche di mostrare come alcune apparenti “contraddizioni” e ambiguità statistiche che, in qualche misura, continuano a velare l’evidenza di una recessione che dall’America si sta ormai estendendo all’Europa siano facilmente decrittabili, solo che lo si voglia.Purtroppo, tale lavoro interpretativo è attivamente ostacolato da un fenomeno che già aveva scatenato l’arguzia di uno straordinario osservatore delle vicende umane. Diceva Mark Twain: “La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno che per illuminazione”. Certa gente, mi permetto di aggiungere, in modo particolare.

da investitoreaccorto.blogspot.com